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Adriano
Il Rifugio e la Prigione
L psicoanalisi tra clinica e critica
di Adriano Voltolin

Recensione di Franco Romanò

 

Quando pensiamo a parole come prigione o rifugio, le si associa naturalmente a  due  luoghi. Se poi dovessimo accoppiare ai due sostantivi gli aggettivi, diremmo che si tratta di spazi chiusi (certamente non nello stesso modo e con gli stessi effetti), ma entrambi contrapposti a ciò che sta fuori e che dunque è all'aperto.

Se così è, il libro di Voltolin sembra fatto apposta per smentire, fin dalle prime pagine, tali convinzioni. I casi clinici presi in considerazione dall'autore, infatti, ci presentano una situazione assai più complessa, dove una separazione così assoluta fra interno ed esterno, non esiste più, ma piuttosto una dinamica che assomiglia a quella dei vasi comunicanti. In altre parole, i nostri oggetti psichici interni, di cui si è prigionieri, oppure nei quali ci si rifugia a seconda dei casi, sono isomorfi rispetto a quelli esterni, in un rapporto che Voltolin indica come dialettico e che a me richiama piuttosto il concetto di risonanza, nel senso che non sono così sicuro che dalla coppia interno/esterno così delineata ne possa nascere un conflitto che porti in una fase successiva al superamento, secondo appunto una legge di ordine dialettico.

Il rapporto di risonanza fra interno ed esterno di cui intendo occuparmi di più, pensando a questo libro di Voltolin, riguarda il modo in cui certi oggetti psichici interni nei casi clinici citati dall'autore, hanno il loro correlativo oggettivo in alcune nevrosi della comunità, traduzione proposta da Voltolin stesso del termine tedesco usato da Freud (Gemeinshaft Neurosen), che personalmente condivido e considero migliore, della traduzione consueta di Nevrosi collettive. 

 

IL LINGUAGGIO COME INDICATORE.

Alla pagina 24 del libro, l'autore ricorda un caso clinico in cui la paziente in questione immagina il pulsante come un oggetto sinistro. Siamo negli anni della guerra cosiddetta fredda e l'oggetto cui si riferisce la paziente è il bottone che, sia il presidente degli USA sia quello dell'URSS, avrebbero dovuto premere per scatenare una guerra nucleare. Fino al  1989 la parola pulsante aveva questo preciso significato, insieme a quella dell'orologio che indicava quanto si era lontani dalla possibilità di un conflitto mondiale atomico. Il paradosso è che oggi, quell'orologio segna più o meno la stessa distanza di prima dalla catastrofe, ma nessuno vi fa più caso, la parola pulsante non indica più nulla o quasi perché è cambiata la percezione di quel pericolo, sostituito da altri.

Il prevalere di un linguaggio oppure di un altro, influenza gli stessi oggetti interni di ciascuno di noi, non solo quelli di chi si rivolge all'analisi.

La differenza fra dialettica e risonanza mi sembra importante per tentare di comprendere in che modo una coppia interno/esterno possa evolversi verso il conflitto oppure verso lo stallo reciproco. Perché risonanza significa dire che alcune parti che un soggetto ritiene esterne a sé e pertinenti all'altro, in realtà sono parti che vengono attivate e che risuonano anche dentro di lui. Dentro quella contrapposizione vive in realtà un rapporto bloccato fra interno ed esterno.

Ritornando ancora  al pulsante come oggetto interno sinistro della paziente, Voltolin, nelle sue riflessioni, nota come alle paure della paziente corrispondeva a livello sociale un correlativo oggettivo storicamente determinato e reale, niente affatto immaginario: la guerra cosiddetta fredda e che ormai sappiamo non esserlo stata affatto stata, ma combattuta secondo le regole della guerra simmetrica e non tradizionale. Al tempo stesso, ricorda come in quegli anni, sempre a livello sociale, la reazione di massa al rischio di un conflitto nucleare fosse fortemente orientata al pacifismo, alla protesta e alla mobilitazione politica. Questi echi erano talmente forti da essere avvertiti anche nella poesia dell'epoca, il linguaggio forse più difficile per avvicinarsi a un problema come quello. Oltretutto, mi riferisco ad alcuni testi di Sylvia Plath e di Marianne Moore, due poete che sembrano essere molto lontane da una poesia che incroci la storia.

Come mai oggi, quando di guerre ce ne sono di più di allora, prevale invece un linguaggio pubblico di guerra di tutti con tutti, e un'attitudine - privata o personale che dir si voglia - che assomiglia assai a una narcotica rassegnazione? Il libro di Voltolin dà una spiegazione in base alla teoria psicoanalitica. La troviamo più avanti a 26: “Se un tempo, diciamo grossolanamente, quella che si situa nella prima metà del ventesimo secolo, la psicopatologia assumeva la forma di uno scontro violento con il mondo....oggi il modo di ammalarsi assomiglia di più a un dolce non volerne sapere...”

 Tale spiegazione, assai ragionevole devo dire, lungi dall'essere rassicurante ci riporta però a una delle questioni di fondo del libro e cioè come sia possibile da un lato immettere nel corpo sociale (della cura individuale di chi si rivolge all'analista non posso dire ovviamente nulla dal momento che non lo sono), un linguaggio pubblico che inverta questa tendenza? Quali strumenti pedagogici sarebbero necessari (penso proprio alla scuola), per contribuire a modificare tale atteggiamento di massa? Non penso, sia chiaro, a un processo di pacificazione linguistica generale. Io credo che uno degli elementi che manchi oggi sia proprio il conflitto sociale (cosa ben diversa dalla guerra) e che anzi, proprio a causa anche di questa mancanza prevalga un linguaggio pubblico che ricorda assai i deliri di onnipotenza tipici di tutti gli impotenti (mi riferisco agli insulti sessisti, non alla satira sia ben chiaro), oppure la bugia del potere che ne è il contraltare.

Se pensiamo al titolo del libro di Voltolin mi verrebbe da aggiungere che il rifugio/prigione del potere occidentale di questo momento si regge sulla bugia sistematica, mentre l'esterno ad esso in quanto opposizione si regge sull'impotenza ammantata di aggressività bellica, di razzismo e di sessismo impotenti, ma anche sull'attraversamento dei confini fra interno ed esterno senza più barriere.

 

 LA BUGIA COME ADATTAMENTO.

 La parola bugia ci porta a un altro caposaldo assai importante del libro anche perché Voltolin la collega immediatamente a una figura dominante della storia del secondo '900 e cioè Richard Nixon, un uomo non dimentichiamolo (non solo lui naturalmente ma il coagulo di poteri che egli rappresentava), che con la sua decisione presa proprio il giorno di ferragosto del 1971, di cancellare un colpo di spugna gli accordi Bretton Woods, cioè ponendo fine alla convertibilità dell'oro in dollari secondo un limite stabilito e contrattato di 35 dollari l'oncia, trasformava la sconfitta militare e politica in Vietnam ormai evidente, e che si sarebbe concretizzata nel 1975, in una guerra economica e finanziaria condotta prima di tutto contro i propri alleati europei, i cui governi erano stati assai critici nei confronti di quella guerra persa e di cui ora venivano chiamati a condividere il costo della sconfitta; anzi, a decine d'anni da quella decisione, a subirne tutti i contraccolpi.

Nel capitolo dedicato a Nixon, Voltolin esamina di passaggio in passaggio come si formano nella personalità del presidente americano i concetti di verità e bugia, arrivando alla conclusione che in lui non vi sia la capacità di distinguere fra una cosa e l'altra ma un progressivo adattamento della verità alla convenienza, dove in sostanza bugia e verità sono solo modi di dire diversi la stessa cosa. Nella decisione di abolire in una notte e senza consultare nessuno degli alleati e firmatari dell'accordo di Bretton Woods, l'accordo stesso, è in atto proprio un atteggiamento di questo tipo. La sconfitta diventa una vittoria e il debito pubblico americano, da quel momento in espansione dilagante fino a raggiungere le cifre iperboliche di oggi, diviene la sua forza: si tratta solo di adattare il linguaggio alla cosa. Dico subito che io respingo la descrizione di tutto ciò nei consueti termini di politica di potenza. È un termine abusato, una  formula non spiega in realtà nulla perché si adatta a troppe cose diverse. Erano potenti anche l'Impero egizio e Tamerlano, ma ogni assetto è diverso da un altro e va compreso nella sua specificità. 

Quello che mi preme mettere in luce è che nell'uomo Nixon e nel suo establishment non emerge affatto una tipologia di comportamento personale, che come tale sarebbe irrilevante, ma niente di meno che la quintessenza di quella che ho definito in un saggio sul libro in difesa della psicoanalisi, l'ideologia anglo-statunitense, le cui radici storiche e filosofiche stanno nell'empirismo prima concettuale, poi etico di Hume, Locke, Bentham, Smith, Stuart Mill, Malthus e all'inizio del '900 di George Moore, il maestro, da un punto di vista filosofico, di Lord Keynes. Secondo tale filosofia solo ciò che è calcolabile o misurabile può essere conosciuto, mentre in altri campi i concetti di vero e falso sono solo adattamenti linguistici alla necessità e alla convenienza del più forte, aggiungo io. Perciò, dal mondo angloamericano giungono le più isteriche e incontrollate (anche linguisticamente) critiche alla psicoanalisi, ma tanto per fare un secondo esempio, è la stessa ragione per cui gli inglesi non hanno neppure una costituzione scritta e si batteranno sempre e fino alla morte perché neppure l'Europa abbia una vera costituzione.

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