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Prefazione a cura di Aldo Gerbino

… Ad Europa un dolce sogno inviò Cipride una volta, nella terza parte della notte, quando l’aurora è vicina, e il sonno, più dolce posandosi sulle palpebre, scioglie le membra e lega gli occhi con molle legame [Mosco, II sec. a. C., Europa]

Germina in Kavafis quell’idea della Storia offerta non in maniera peregrina od ornamentale, ma quale alimento necessario alla poesia; è di Kavafis, d’altronde, quel senso, ancor meglio quel sentimento profondo, spesso ammantato della drammaticità insita nello scorrere del tempo, per cui la storia è motore, bagaglio, metafora e lancia vettrice d’una realtà pronta a restituirci, ben fissate, parole e accadimenti trascorsi, o quelle parole dettate dall’azione poetica o quelle

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che, infine, riversiamo quotidianamente nella specola del nostro vissuto fino a quelle forgiate da un denso nucleo emozionale sospinto verso l’idea del ‘ritorno’– il nòstos (così compenetrato di álgos) – visto quale indefettibile conquista di conoscenza, di cognizione alla partecipata finitezza del vivere. Ed in tale idea si sottolinea anche la necessità di consegnare il proprio punto di vista, di giustificarne il senso, di poter dare maggiore consistenza, oltre che alla propria singolarità, all’ineludibile individualità sociale artefice del disegno storico. Un capire, dunque, e un correggere pensieri resi fragili dall’usura del tempo, oppure cristallizzati da convenzionali concrezioni collettive tanto da rendere le parole della poesia, – con l’anima stessa che in essa si agita, – asfittiche, sanguinanti proprio quando esse si trovano al culmine di un desiderio attivo di memoria. Filippo Maria Pontani, a tal proposito, dice di Kavafis, come il suo prosastico

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«canto severo e fermo della memoria» oscilli tra i peculiari «ambiti dell’ispirazione [che] va[nno] dalla leggenda mitologica alla situazione storica (vera o immaginaria), dalla parafrasi di un testo all’arida cronaca.» Ed ancora sottolinea di come in tale registro «la “storia versificata” [sia] talvolta interessante almeno per lo stacco e l’inquadratura, per la vivezza dell’ambientazione, per lo spicco drammatico di voci diverse» (1996). Allora in relazione a tali riflessioni sembra concretizzarsi una poesia pronta a catturare quel tutto che nella ‘storia’ sia stato secreto dalla vita presente e trascorsa, restituito in un unicum imprescindibile. E Ghiorgos Seferis sostiene – a ricordarcelo è Renata Lavagnini nella chiara ‘Introduzione’ del 2015 alle Poesie incompiute (1918-1932) del poeta neogreco di Alessandria d’Egitto, – come per la comprensione delle poesie storiche sia assolutamente necessario «cercare di capire quali sentimenti esprimono le fonti a cui esse rinvia

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no, perché i rinvii storici di Kavafis non sono riferimenti a un sapere enciclopedico, ma rinvii a sentimenti o a emozioni». A tali ‘sentimenti’ e a tali ‘emozioni’ sembra attingere Franco Romanò nel poemetto Veglia Europa, testo spinto verso la navigazione attraverso l’Europa per toccare la realtà politica del XX e XXI secolo e quel mito che ci è particolarmente caro: la fanciulla rapita da Giove nella sua forma taurina – in quanto, proprio nel mito, «ella sedeva sul toro come una nave in cammino». Così si afferma nel plot narrativo dello scrittore greco antico Achille Tazio, autore degli Amori di Leucippe e Clitofonte – e ancora leggibile nel corridoio vasariano degli Uffizi (tra le tante opere che interpretano il racconto fino alla contemporaneità) dal composto olio del secentista bolognese Francesco Albani mosso tra refoli di versi ovidiani che aleggiano dalle Metamorfosi ai Fasti. Ma anche, per certe lontane incidenze di atmosfere, nel testo immer

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so in quella ‘Veglia’ d’Ungaretti (poeta prossimo, e non solo per i natali, a Kavafis) nella quale si attinge forza e speranza dal corpo e dall’anima offesi del compagno che la storia ha condannato e deposto algidamente in trincea. I tre segmenti confezionati da Romanò, ossatura e carni del poemetto, tracciano, dunque, tempi ed emozioni da “L’ultimo Alessandro” a “Conquistadores” al “Sogno profano”: dal viaggio lungo il Nilo di Antonio e Cleopatra e dalle atmosfere surreali del lago di Nemi fino alle idi di Marzo e agli anni recenti delle nostre conquiste sociali, in un continuo addensarsi di vicissitudini e figure che intridono il presente di passato fino a condizionarne lo stesso scorrere del tempo riconoscibile come matrice memoriale, assorta nel cogente affioramento dell’attualità. Una corsa che “finisce a Berlino”: l’«Europa è tornata, il ratto / concluso», insiste Romanò; una conclusione disciolta tra le acque d’un

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“oceano nostro” che è “mare”: mare pacato nella sofferta solitudine dell’incomprensione, del precipitare continuo delle esistenze. La possibile storia alimentata dall’utopia fedele di Ulm e che rimarca il disorientamento dell’azione poetica, ne connota lo spiazzamento del vissuto, ora tra imbarcazioni nilotiche ora tra le suggestioni immerse nella storia romana in cui troneggia la grandiosa abitazione che fu di Cesare, fino a trascinarsi nei secoli che, dopo la rivoluzione francese, non riconoscono ancora l’ineludibile marchio della fratellanza. L’antico continente, avverte Franco, è vecchio, «non può più celare sotto un manto di / facile oblio quel che lei sa» e «sorseggia distratta ed il rosso / è solo ricordo presagio / di sangue». Sangue e cupe tensioni i quali, a ritroso, vengono espunti » e in cui « la lama si fermò a pochi / centimetri dal cuore»; il tutto in un verseggiare la cui trama narrativa, sincretica all’introspezione storica e corredata

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dagli umori analitici degli eventi, si riscalda nella tempra emotiva della partecipazione politica senza scadere nella retorica, e, pervicacemente vigile a se stessa, s’impone nella matassa sociale come personale dettato gnomico. In tal modo le figure di Alì, il ragazzo pakistano, o il turco sommerso da fumiganti pentole nella Londra del 1969, impongono quella scenografia migratoria e quel sottoproletariato della cultura subalterna (nella dizione antropologica cara a Cirese), e che già, negli anni ’70, trova spazio (da altre sponde) nell’aureo libretto garzantiano di Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania, oppure nella scrittura polemica e incisiva di Sebastiano Saglimbeni, che s’incrocia con la lucidità eretica di Roversi. La disposizione socializzante, il perimetro della sofferenza e della faticosa ricostruzione della dignità umana in un’Europa in fase di trasformazione e, ancor oggi, in cerca di una identità che guardi al dialogo interumano e

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interculturale, appare allora offerta in ogni declinazione del perimetro linguistico esercitato, con la giusta misura messa in campo, da Romanò, senza indulgenze melodrammatiche, ma piuttosto aperto all’osservazione lucida quanto amara d’una storicità votata alla ricerca della sua anima moderna, mentre sembra trascinarsi in quella profezia di Eliot per cui (ci viene ricordato) «L’Occidente finirà in un piagnisteo». Di certo si denuncia un permanere d’interi popoli, – tra sanguigne fragranze, utopiche infiorescenze, grumi di realtà e squarci geopolitici lasciati essiccare sulla schiena inerte delle vittime d’ogni sopruso, – spinti alla ricerca, così come avvenne per la passionale figura del parmense Guido Picelli, d’un ‘vero’ e di una ‘parola’ lenitivi d’ogni ferita, trascinati ora tra stupefatte veglie, ora nell’inviolata persistenza dei sogni.

 

 

 

 

Recensione a cura di Eva Gerace

Questo libro aperto tra le mani, lo giro, lo chiudo e ritorno ad aprirlo. Domande, solo domande, da dove iniziare?

… e se lo prendo “come” se fosse una seduta? Cosa mi vuole dire? Chi parla?

Schermo in bianco… ascolto la prima frase: Veglia Europa.

Un’immagine emerge subito: Europa sul lettino. Il suo uomo-toro, a fianco, appare subito nel racconto.

Parla lei e io penso: chi c’è sotto il lettino…?

 Come ogni seduta analitica mette in scena una storia straniante, includente, teatro tragico, in principio, talvolta comica. L’interpretazione chiama poesia.  

Silenzio. Orecchi aperti. Come direbbe Adorno: “saper pensare con le orecchie”, per far sì che la parola, il corpo della parola emerga.

Europa parla, emette una sequenza di versi. Parla per sapere: che cosa voglio? Chi sono? Parole enigmatiche anche a lei stessa. Come fare se la tenuta della parola è sempre scivolosa, fatta di arbitrarietà, indeterminatezze, imprecisioni, ambiguità… carme.

Chi è Europa. Chi è quest’Europa che si deve vegliare? O… svegliare?

Veglia sostantivo femminile. Fa riferimento alle ore notturne. Lunghe ore di veglia o fare la veglia a un defunto, anche una veglia danzante!

Un’intera nottata. Ungaretti nel porto sepolto. Poesia di guerra, prima guerra mondiale. Il poeta, avverte la presenza della morte nella vita umana, reagisce: Scrive le sue lettere piene d'amore e celebra la forza della vita. Europa mi fa ricordare lui.

 

La condizione di vegliare è stare sveglio

Mancano parole per rappresentare la realtà, ma queste possono scavare un buco nella realtà. Differenza tra quello che si vuol dire e quello che si può capire, tra quello che pensiamo di essere e quello che siamo.

Europa, sdraiata sul lettino, parla. Impara ad ascoltare le sue parole come se arrivassero da un estraneo. Incertezze, fino a che arriva un’altra domanda, indispensabile: Qual è il mio desiderio? Lei già sa che una scintilla di desiderio, sostenuto eticamente, può cambiare la posizione soggettiva di un soggetto e anche quella di una piccola o grande polis.

Le difficoltà si possono presentare in forme apparentemente diverse, ma c’è qualcosa che insiste... sia in Europa, in America, in Cleopatra, nella Sfinge, in Malinche, nel maggio del ‘68, nella Londra del ‘69 o negli anni ’80…

Ci sono tre lune nella segreta casa, evoca Europa, la seconda lacera il mantello del lago, ricordo il tango: la luna en los charcos, canyengue en las caderas/y un ansia fiera en la manera de querer[1]...

Le ferite dell’amore, della vita, della morte, si possono riflettere sia sul mantello del lago sia en los charcos. Europa ha intenzione d’imparare a navigare e sostenere le sue scelte.  Può così svegliarsi.  

Non scrivo su ordinazione della storia neppure mi ritiro dall’agone… Osservo ciò che accade, trattengo l’alone di ogni evento il sogno che lo fece nascere prima di ogni distorsione. (Franco Romanò, L’epoca e i giorni).

Naviga o cammina, è essenziale la recita. Si alleggerisce. Quando dalle guerre e dalle invasioni lei può parlarne. Ci sono momenti molto intensi, Europa si sorprende con un lampo de verità che illumina un’associazione inedita: A Roma contavano le monete/i senatori.  Momento di scoperta, non più eludibile.  

Il tempo è una questione complessa, affrontato dai fisici, dagli scienziati, dai filosofi, dagli artisti e anche dagli psicoanalisti…

E, finisce una seduta, dicendo quindici marzo e inizia la successiva con: il 20 marzo… Così comincia il racconto dei funerali… un’altra volta il tempo. “Il tempo non sembra trascorso e marzo è ancora gentile”.

L’artista precede lo psicoanalista. L’artista è colui che riesce a raffigurare quello che risulta di più orroroso al semplice mortale. Coraggiosa scelta, arriva fino fondo, non senza angosce e tremori, e le storie diventano un canto.

I suoi racconti mi fanno partecipare a diverse scene teatrali.  Lei con il suo abito regale. Dea o regina? O schiava? Ancora non lo so.

Da quegli avvenimenti impossibili da nominare, dove non solo le palme si piegano, da quell’invasione, muta ma fragorosa, può, nella sua lingua nascondere nelle pieghe della gonna memorie di sangue e anche, un prezzo pagato di notte. Morte e sesso, ovunque, si ascoltano nelle radici di quasi tutte le angosce.

Sfiora quei litorali fuori senso e fuori tempo, colpendoci all’improvviso. Difficilissimo da sopportare è qualcosa che prende forma e fa soffrire nel corpo e nella Psiche, è sinistro quando ancora non si riesce a fare a meno, e si ripete e si ripete… Europa, Malinche, ripetono storie di servitù… e conquiste!

Parole, storie, da un tempo chiamato “lontano”, s’intrecciano con scene di oggi, come nei racconti di una seduta.

Nomina uno stile anglosassone… ricorda che loro hanno le donne in comune, vivendo in gruppi di dieci o dodici, e le difficoltà attuali case ipotecate e mutui per la scuola dei figli. Subito il Nilo fa dire di un viaggio durato dieci settimane.  Dici settimane d’amore. L’oracolo parla e la Sfinge guarda.

Cleopatra o Malin, sono nomi. Europa non ci dice se il contesto è vivo o morto, sappiamo solo che è presente. Lei nomina l’ultimo Alessandro e ci conferma questo passaggio delle storie tra ieri e oggi. E, mi sorprende come della storia fa arte poetica, impara a gettare il cuore in campo avverso/legato al filo di parola.

Continua i suoi racconti. Avvenimenti lontani e vicini… assomiglia a Tita Merello che al son de un bandoneón evoca París con Puente Alsina[2].

Anche Chiamamanda Adichie parla due lingue e scrive in Africa sulla birra allo zenzero e denuncia i pericoli di conoscere “una storia sola”. Una sola versione della storia è legata al potere. Toglie la dignità del singolare. Non c’è una sola maniera di leggere, raccontare una novella personale, neanche quella dei popoli.  

Europa fa versi con il passato, rinforza le diversità, e mi fa scoprire che da lì, da qualcosa che si sta vegliando, si può trarre una musa. Europa, Cleopatra, Malin, parlano di vicende, d’amore e di ferite.

Lei mi sta indicando che la donna, in veglia, non può continuare ad aspettare. Mi fa leggere le diverse possibilità che ha una donna per svegliarsi, che deve svegliarsi, forza non le manca.

[1] Tango El Choclo (la pannocchia di mais). Di Angel Villoldo (1864-1919). Famoso tango argentino detto della «Guardia Vieja».  Il debutto di questo tango è stato il 3 novembre 1903. Por tu milagro de notas agoreras, nacieron sin pensarlo, las paicas y las grelas, luna de charcos, canyengue en las caderas, y un ansia fiera en la manera de querer… (Dalle tue note son nati per incanto le donne forti e prepotenti e le donnacce, la luna nelle cavità, il canyengue nei fianchi, e un'ansia fiera nel modo d'amare). 

[2] El Choclo: Carancanfunfa se hizo al mar con tu bandera y en un 'pernó' mezclo a Paris con Puente Alsina, (Caracanfunfa attraversò i mari con la tua bandiera, e in un "pernó" mescolò Parigi con Ponte Alsina). https://www.youtube.com/watch?time_continue=4&v=KMiGOEwKSZM

 

Lei sta facendo un profondo lavoro sulla femminilità 

E continua a raccontarmi che lei è principessa, e che senza sapere come è successo, Zeus la conquista quando la vede in spiaggia, con il suo bikini a pois, lui s’invaghisce. Poiché ha tutti i poteri si trasforma in un bellissimo toro. Fanciulla per niente intimorita Europa gli sale sul dorso. Zeus la rapisce attraversa il mare e la trasporta a Creta dove lei è la prima principessa del luogo.

 

Il mito di Europa da sempre rappresenta le migrazioni e l’intercambio di culture, le grandi trasformazioni sociali e culturali.

Il potere della parola poetica ha la sua efficacia. Europa soffre, è angosciata, chiede aiuto.

La parola, oceano nostro, è un mare pacato/Europa contempla le spiagge dei laghi ghiacciati/la foce dell’Elba. È dolce/invecchiare alla luce del Nord/al sole che resiste/alla tenebra glaciale/oppure si oscura e protegge/il più intimo fuoco.

Respira, lotta con chi la vuole globalizzata, soggiogata. Lei vuole essere diversa. Poetizzare istituisci le differenze.

Vuole il risveglio, è convinta che il destino umano sia questo. “Ogni tanto”, continua, con la sua voce appena sveglia, “sono rari questi momenti di grazia, ma mi permettono di sognare un nuovo sogno, questo nuovo senso che la vita ha”.

Europa, non vuole più veglie per l’altro. Sveglia per ricevere lo straniero. Si domanda, “il mio posto? Qual è il mio posto...? (lunga pausa) C’è sempre in me un posto che resta straniero, non del tutto capito, uno spazio che mi libera, penso di prendere un desiderio… e questo svanisce nella sua realizzazione, e un’altra volta sbuca lo spazio…”.

La sua voce ha una nuova risonanza, cadenza, sonorità. La voce è luogo di risveglio, la voce del poeta ha questo compito.

“Il desiderio è un’attività latente e in questo si rassomiglia alla scrittura: si desidera come si scrive, sempre[3]”.  

Gli artisti, con le diverse modulazione della loro voce, possono portare all’acme.

E oggi Europa arriva con la storia de los Conquistadores

Reina en campo enemigo, esclava en campo amigo, dondequiera mujer, ve desfilar princesas aztecas a su lado/los grandes de España, desparecer los hermanos y disuelto el vínculo divino y el otro más concreto/deja a Hernán Cortés una gloria claudicante/confía al canto oblicuo en tercia lengua esperanza/irreducible de sentido. Mueve señales al sol modulando sobre el teclado del abanico/el canto de sus dioses, se confía al tiempo/ Vive en el vuelo del colibrí/en la mirada del águila y del cóndor, su nombre resuena en las fábulas ahora/que todos se han ido/vigila velada el corazón de la selva.

Tornate a celebrare il vuoto che respira. (Franco Romanò, L’epoca e i giorni).

Los nombres descuadernados en abanico como un carnet de baile/los idiomas diversos, el silencio/¿Alguien preguntó, alguna vez, cómo te llamas?/Si sucediese responderías otros: Malin, Malinalli, Malina,/los españoles escucharon Marina…/Y después Malintzin, signo de nobleza y distinción/Palabra y sello aterraban/a los embajadores de Monteczuma: así protegida del espanto, deslizabas sinuosa/en el breve silencio de guerra/la barra del timón siempre derecha: descifrar, traducir, esquivar/la palabra peligrosa para ella, la vida por salvar para proteger otra/su hija: sus grandes juegos/no se ocupaban de tales naderías.

“Gli altri no, io sì”, dice Europa, in prima persona, il valore di velare i giochi di mia figlia, e delle donne che verranno e dovranno passare, ognuna, senza garanzia, (anche l’uomo!) questo compito: Costruirsi il nome proprio.

 

[3] Marguerite Duras.

 

® Le parole scritte in corsivo che non hanno un riferimento sono tratte dal libro Veglia Europa di Franco Romanò, “plumelia” edizioni, 2017.

Recensione a cura di Paolo Rabissi

 

Ciò che anima in maniera decisiva questa nuova raccolta di Franco Romanò è la tensione etica, irrinunciabile per lui quanto l’esigenza di scriverne in versi. È una tensione che è già evidente nel titolo Veglia Europa su cui torno fra poco.

Questa tensione etica del poeta si manifesta sin dai primi versi del poemetto L’ultimo Alessandro, che apre il libro, c’è qui una sorta di dichiarazione di poetica anche se apparentemente il poeta sta parlando delle caratteristiche della lingua latina di Cesare (l'incipit del poemetto l’ultimo Alessandro, con cui la raccolta comincia, riporta le prime righe in latino del De bello gallico):

La lingua limpida, il dettato

che non liscia la storia

anzitutto dunque linguaggio limpido, nessuna concessione ad artifici retorici, a metafore eleganti, ma anche nessuna rinuncia a posare lo sguardo sul male della storia, questa è la cifra che a mio parere lega tutti i poemetti.

Ho detto nessun artificio retorico ma è vero fino a un certo punto, ce n’è uno in particolare ed è l’uso del presente storico, proprio alla latina come fa Giulio Cesare, ne viene come effetto che il lettore in certi momenti si ritrova immerso nel proprio presente mentre di sicuro fin lì si trovava nel passato, valga come esempio proprio nella prima poesia a pag. 18 dove, parlando delle condizioni della plebe il poeta dice:

molti essendo oppressi dai debiti o

dal peso delle tasse

o dalla prepotenza dei potenti,

si offrono schiavi ai nobili,

ipotecano le case, accendono

mutui per la scuola dei figli

cadono nella tresca usuraia

[…]                              …affollano

le strade fuggendo da guerre…

 

Ecco, la narrazione storica è improvvisamente diventata un richiamo del poeta al fatto che l’Europa dopo più di duemila anni è afflitta nonostante la sua lunga storia di civiltà dagli stessi mali legati alla violenza del potere, il lettore viene avvisato del passaggio dall’uso del corsivo, legato al passato, che si fa per il nostro presente normale.

Dunque sembra proprio così, linguaggio e tensione etica fanno tutt’uno nel verso chiaro ma secco che segue un proprio ritmo interiore, di misura breve o più lunga ma sempre a ridosso della sua tensione empatica verso le sorti della vecchia Europa.

 

Torniamo allora per un attimo al titolo perché dobbiamo scoprire qualcosa in più.

A nessuno sfugge che si tratta di un titolo che offre molteplici soluzioni di senso, io ho finito a dire il vero col fare una torsione grammaticale di cui provo a dare ragione.

C’è una parola antica ormai caduta in disuso, e comunque di uso solitamente poetico, un aggettivo sostantivato che è Veglio, lo usa Petrarca, lo usa Dante. Dice Dante appena messo piede nel Purgatorio

Vidi presso di me un veglio solo

degno di tanta reverenza in vista

che più non dee a padre alcun figliuolo

(siamo nel Purgatorio, si tratta di Catone nemico di Silla e poi di Cesare, piuttosto che cadere sotto la tirannia di quest’ultimo si uccide).

Ora veglio vuol dire vecchio, deriva da vetulus, da quel latino con cui Franco Romanò inizia il suo viaggio.

Mi piace allora interpretare, forse al di là delle intenzioni dell’autore, veglia Europa come vecchia Europa.

A legittimare la mia scelta del resto soccorre bellamente  l’emistichio Europa è vecchia dell’ultima poesia.

L’Europa è vecchia ma si tratta di una vecchiaia degna di reverenza e amore come nel caso del Veglio che compare a Dante.

Se leggiamo infatti il resto della poesia l’immagine di Europa che ce ne viene è quella di una signora attempata che racconta la sua storia così lunga e complessa ad una platea di uomini appesi alle pipe e alle labbra di lei per rivivere vecchie battaglie e fastosi trascorsi.

Ma non basta questo per il nostro ragionamento, occorre aggiungere la connotazione etica, infatti Europa è degna di amore ma

non può più celare sotto un manto di

facile oblio quel che lei sa

sorseggia distratta ed il rosso

è solo ricordo presagio

di sangue

Europa, ecco il dettato che non liscia la storia, non deve rimuovere quanto la sua storia grondi di sangue e violenza.

Questa nuova raccolta di versi di Franco Romanò è un invito amorevole ma senza lisciate ad attraversare picchi significativi della storia d’Europa, un invito attento al dettato severo della storia, quello che nelle vicende sciagurate dell’umanità cerca un senso non effimero o banale e magari anche i segni di un riscatto ancora possibile.

La raccolta parte da Giulio Cesare, ultimo Alessandro, fino a coinvolgere il nostro recente presente con la caduta del muro di Berlino.

Un materiale incandescente in cui poesia e storia, memoria e storia s’intrecciano in quella che vorrei chiamare la calda storia.

Una storia calda appunto della tensione del poeta che interroga

le grandi passioni di uomini e donne, le relazioni d’amore nell’intreccio con il potere, e i sogni rivoluzionari.

Calda perché lo sguardo del poeta indaga oltre le ragioni della grande storia.

la storia deve mettere punti

e virgole, timbrare documenti

e testimoni, stampare i nomi

perché tutto infine si plachi

nei libri

il poeta in questo senso è più libero dello storico, perché è vero che la storia non è più solo quella dei vincitori ma fa ancora omissioni e non sa guardare negli angoli.

proprio negli angoli

bisogna guardare per vedere bene

dice nella poesia intitolata ‘Deportati’

 

Così il poeta coglie Cesare e Cleopatra in un viaggio sul Nilo che dura dieci settimane e le ore d’amore si alternano ai progetti di spartizione dell’impero prossimo venturo.

Ci racconta la storia di Malinche, nobile azteca divenuta schiava e poi amante di Cortes e la storia di Guido Picelli, un rivoluzionario che parte dall’Italia e attraversa tutta l’Europa da Mosca alla Spagna inseguendo il suo sogno rivoluzionario.

A tratti lo sguardo del poeta si fa attonito nel constatare la miseria della storia: è il caso di ‘Conquistadores’, il secondo poemetto della raccolta: a cosa è servita tanta violenza e crudeltà , tanta astuzia del potere, ai conquistadores spagnoli sulle popolazioni indie visto che i vinti di un tempo sono ancora qui nel presente?

il Messico è pieno di conchiglie e teschi

di spagna… ma dappertutto si guardi

si vedono indiani viventi:

dove sono i conquistadores? 

Forse l’animo più turbato e commosso di fronte alle violenze degli eventi storici il poeta lo svela quando deve farsi testimone della caduta del ‘sogno profano’ quello che partito dalla rivoluzione d’ottobre sembrava destinato ad aprire una nuova era in cui riscattare millenni di oppressioni e violenze di classe.

Qui il poeta si ripiega su se stesso perché la sconfitta ha finito dopo aver sfiorato la libertà col rendere di nuovo il poeta simile al goffo albatro incapace di volare oggi a causa di gabbie nuove più sofisticate e invisibili. Così nell’ultimo poemetto ‘1789-1989’ in un crescendo fortiniano:

Il poeta della storia è un albatro

di nuovo ai ceppi imprigionato.

Scrivere un diverso statuto

sulla dura pietra di una fabbrica

richiedeva tempo e qualcosa di più

della fratellanza, del pane insieme

compagni…

La poesia tuttavia va oltre.

In quest’ultimo poemetto il sogno profano fallito non basta a impedire al poeta di riprendere il suo cammino periclitante in un paesaggio desertificato, tra mille incertezze ma nella consapevolezza della possibilità di un altro diverso percorso:

ma il sarto di Ulm continua a tornare

nei sogni, nel balenio improvviso

e risveglio dal sonno totale,

a dire che sì, si può

imparare a volare.

E dunque possiamo concludere anche noi, quella tensione etica che abbiamo detto attraversare sin dall’inizio questi versi non è nient’altro che la tensione della poesia con le sue ragioni e i suoi sogni.

Recensione a cura di Franco Sepe, pubblicata sulla rivista Incroci n° 38 del 2018 alle pag. 145-147

 

Si parla tanto di Europa. Forse anche troppo e in toni allarmistici. Se ne parla spesso come a voler scongiurare un pericolo. Quello di una possibile disgregazione politica. Occorre una ricomposizione delle forze e una nuova progettualità: sono questi gli appelli che udiamo quotidianamente, riportati dai notiziari con una frequenza che vanifica, per troppa insistenza, i significati storici e politici connessi alla nascita e alle vicissitudini di un continente chiamato a non ripetere gli errori del passato e a costruire un futuro di pace e di convivialità tra i suoi popoli e le sue nazioni, e tra loro e il resto del mondo. Occorre dunque una cura efficace, per evitare il collasso definitivo.

L’ultima raccolta poetica di Franco Romanò intitolata Veglia Europa, fa pensare, tra le altre cose, a una veglia al capezzale di un malato. A una notte insonne, fitta di pensieri passati al vaglio da una coscienza inquieta che non si accontenta di considerare i fatti come la conseguenza di un destino inelluttabile, ma si spinge alle scaturigini, disfacendo una trama di eventi da ritessere nuovamente in una visione capace di schiudere non uno ma una moltitudine di sensi. Una visione tradotta „in un verseggiare – come scrive nella prefazione Aldo Gerbino, egli stesso poeta e curatore della collana – la cui trama narrativa, sincretica all’introspezione storica e corredata dagli umori analitici degli eventi, si riscalda nella tempra emotiva della partecipazione politica senza scadere nella retorica“(pp.10-11). Un’operazione, quella di Franco Romanò, che nasce da un intimo bisogno di rimescolare le carte, una volta sottratte al banco, per allestire un gioco nel quale a dominare sia la lealtà dello sguardo. Qui è infatti la poesia che, con l’efficacia del verso e distante appunto da qualsiasi retorica, intende misurarsi con la Storia, la leggenda e il mito. E lo fa ripercorrendo un itinerario complesso che inizia con il viaggio sul Nilo, durato dieci settimane, di Cesare e Cleopatra – il titolo di questa prima sezione è „L’ultimo Alessandro“ – un viaggio tra l‘altro intrapreso per  tentare un ipotetico accordo politico volto a decentrare il potere imperiale su Alessandria; questo infatti, dopo la morte di Cesare, il disegno mai realizzato da Antonio („il sogno orientale tramontava / nel sole immenso degli egizi“, p.22). Il sogno di Cesare non si interrompe qui, cambia soltanto luogo. Lo ritroviamo nel secondo segmento, „Il sogno di Nemi“, dove si dice, del tutto ipoteticamente, di un’unica notte trascorsa ( o soltanto immaginata ) dal generale e console romano nella sua villa sul lago (Nella casa segreta, / nella selva delle tre lune / solo una notte dormisti, solare / nel luogo silente e lunare“, p.23), in un momento decisivo della sua vita. La sezione si chiude con un terzo componimento, „20 Marzo 2000“, nel quale lo sguardo indugia sull’ultima dimora del grande condottiero, lungo i Fori imperiali, „l’altare di sasso“, tomba „sempre coperta di fiori“, mèta oggi di turisti venuti „da tutti i mondi a vederlo“ (p.27).

Allo scempio compiuto dai „Conquistadores“ – questo anche il titolo della seconda sezione del volume –  scempio qui perpetrato ai danni di Malinche, „regina in campo avverso, / schiava in campo amico“ (p. 38), traduttrice-traditrice, amante e vittima designata di Hernan Cortés durante la conquista del Messico, segue la terza e ultima sezione, „Il sogno profano“, che si apre con „Guido Picelli“, il martire rivoluzionario parmense oppresso dai fascisti e scomodo ai sovietici, destinato a precipitare „in un gorgo senza fine“ (p. 52), e prosegue con „Deportati“, dove „nel vasto campo della memoria“ di un sacrario l’occhio del visitatore si sofferma su un curioso connubio di nomi, Ivo Re e Adolfo Stick („Ivo e Adolfo, nellla parete del dolore / sono una macchia di rosso che / dal sangue è ritornata vino, riso“, p.56). Il segmento successivo, „Estate 1968“, è reminiscenza di quel maggio lontano, „mese di rose e barricate“, mitico passato nel quale pareva „germogliare uno stato nascente“ (p.57).

Uno squarcio di memoria giovanile lo troviamo anche in „Londra 1969“ („A Londra l’aria di cambiamento / era un venticello e la città / una nicchia dove sostare…“). Qui l’io lirico, in dialogo con il compagno di lavoro, un turco (o pachistano?) di nome Alì, alle prese con i fornelli, fraternamente ricorda: „canticchiava intimorito una nenia / che mi sembrava sacra / e io rispondevo fischiettando / una canzone rivoluzionaria“, p. 60). Mentre in „Anni 80“, con il venir meno delle utopie („Anche per te era finito / il sogno che si mutasse in pace / la pelle dell’Italia“, p. 63) il verseggiare si fa amaro („Avevamo pensato / di alzare le bandiere di un altrove / ed essere là, non da questa parte… / eravamo noi a finire“, p. 64). E ha  termine il viaggio, storico e mitologico, nel penultimo frammento in versi intitolato „Europa“ („Finisce a Berlino la corsa / Europa è tornata, il ratto / concluso“ p.65), con un cammino migratorio, come si dice poi nell‘epilogo („1789 -1989“) „ a piedi in mezzo a una polvere che è / deserto e veleno, passo dell’esodo / e accampamenti / lontano dal cielo“ (p.70).

Queste le stazioni, assai singolari e suggestive, di una meditazione in versi sull’Europa che parla al lettore diversamente da come è solito farlo il politologo o l’analista. Con la sua Veglia Europa, anziché far uso di definizioni o assiomi, Franco Romanò fa lievitare dal tessuto poetico un canto – talvolta di sapore epico, talaltra di carattere elegiaco – che, nella sua pacatezza,  dà fiato ai melodiosi contrasti di un continente caleidoscopico, un continente dal cuore antico come il nostro.

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